Posts tagged razzismo

i diritti delle bambine

Ieri il Giornale di Brescia ha dedicato ben due pagine alla mozione votata in sessione straordinaria dal consiglio comunale di Verona, cogliendo l’occasione per un report sulla situazione bresciana. L’aver taciuto la finalità dell’operazione (dirottare risorse pubbliche), aver sorvolato su chi l’ha condotta (il condottiero leghista sull’omofobia) e qualche dato decontestualizzato (i numeri sulla RU), mi hanno spinta a scrivere ieri una lunga lettera al Direttore.
Scusatemi l’eccesso di passione. Read More

test sulle intolleranze

Ognuno di noi possiede pregiudizi e stereotipi. Perché la nostra mente è pigra, perché abbiamo bisogno di illuderci che possiamo controllare la complessa realtà in cui viviamo, perché non ci è umanamente possibile Read More

le bestie

Io non sono un uomo. Ma se lo fossi, credo che in questi giorni più di altri sarei preda di un cortocircuito emotivo e di autostima, per il mio genere e forse anche per me. Tre episodi su tutti che dominano Read More

L’eugenetica del Gabibbo

Il mio treno rientra da Roma alle 21:55. Siamo al binario 7. Durante il viaggio, ho letto Ausmerzen, il testo che Marco Paolini ha pubblicato dopo l’omonimo spettacolo. Dentro ci racconta una storia atroce, che tutti conosciamo ma che non sappiamo nei dettagli. Ci racconta di eugenetica: quel sistema che unisce pensiero, scienza, politica e sociologia e che ha a che fare con la distinzione non solo delle razze, ma anche delle persone. Una categorizzazione tra degni e indegni, tra utili e inutili. Tra meritevoli e parassiti. Tra chi va aiutato e chi va eliminato. Il libro non è solo estremamente intenso e coinvolgente. È anche indispensabile per capire come alcune idee possano ciclicamente tornare a serpeggiare, di come la propaganda possa riuscire efficacemente a promuoverle al punto che diventano nostre, ci appartengono. E le applichiamo nelle nostre azioni quotidiane. O, meglio, molto più spesso, in ciò che non facciamo.

Non si è spettatori di colpe di altri, è un «viaggio allucinante» dentro noi stessi, con un bagaglio crescente di dubbi, di domande difficili, di analogie con altri fatti, altri uomini, con la quotidianità di ogni giorno.

da Simone Casetta - Fanno finta di non esserci (2011)

Un esempio su tutti.
Ieri sera torno da Roma con il treno delle 21:55.
Sul binario, cammino trascinando la valigia. Di fronte a me, una signora dalla pelle color dell’ebano. Ha un bambino legato sulla schiena che dorme tanto beato quanto spalmato. Una bella bimba con due codini le tiene la mano. La signora ha due bambini, una borsa, una valigia, un passeggino carico di cose. Ma ha anche altro: una sacca enorme, caricata allo stremo della capienza. Un uomo gliela allunga dal vagone. La borsa è troppo carica. Lui pensa di aver già fatto fin troppo. La borsa si rompe. Un bricco di latte condensato rotola sotto il treno. L’uomo se ne va. È corrucciato e scuote la testa. La signora ha due bambini, uno a spalle, una per mano, una borsa, una valigia, un passeggino carico di cose e una sacca rotta con il cibo sparpagliato per terra. Vicino a lei, i passeggeri scendono assonnati e indifferenti. Poco alla volta, svuotano il marciapiede.
Restiamo io e tre ragazzi, tutti con un piccolo trolley.
Vorrei chiederle come succede che sul mio stesso treno possiamo viaggiare io che mi sono fatta una festa della mamma senza bambini a Roma e lei che viaggia portandosi dietro 60 kg di latte. Non mi sembra il caso. Mi fermo invece a chiederle se ha bisogno di aiuto. Una domanda stupida: certo che ne ha bisogno.
Mi chiede se posso aiutarla a recuperare il bricco di latte caduto sotto il treno.
La situazione è davvero grave.

La questione non è il fumo in sé: è il fumo in me. E quando toccherà a noi ? […] Ciò su cui stiamo riflettendo sono elementi sottili, come sottile è la depersonalizzazione collettiva per cui diventa normale non reagire e farsi i fatti propri.

da Simone Casetta - Fanno finta di non esserci (2011)

In qualche modo, io e uno dei ragazzi che si è fermato (gli altri se ne sono andati: erano stanchi) siamo riusciti a compattare la sacca e caricarla sul passeggino. Ad aiutare la donna è arrivata una sua amica, in abito lungo e ciabatte. Ho caricato una borsa sulla spalla, ho preso la bimba per mano e ci siamo avviate alle scale.
La stazione di Brescia è piena di scale, come tutte le stazioni dei treni.
La civiltà di una città si misura anche da questo: la vita è fatta a scale, chi le sale e chi, anche volendo, non può.
Ma gli altri, quelli che non si fanno domande, cosa pensano? Forse, chissenefrega. Forse, non è un problema mio. Forse, se lo meritano.
A portar giù tutto quel peso non ce la potevamo fare. Abbiamo chiesto aiuto.
Giù dalle scale, anche il ragazzo che ci ha aiutato se n’è andato: suo padre gli ha detto che aveva fatto abbastanza. E poi fuori pioveva.

La scienza diede il proprio avvallo, la chiesa tacque, molti girarono lo sguardo altrove. Poi, fu troppo tardi.

Siamo arrivate sotto la scalinata più difficile, quella che porta all’uscita.
Che fortuna, ho pensato: c’è un ascensore per disabili.
Il campanello dice: suonare per chiamare il responsabile della stazione.
Suono.
Aspettiamo.
Suono.
Aspettiamo.
Suono.
Aspettiamo.

Aspettiamo.

Aspettiamo.

Chi aspetta, ha fiducia. Ma chi aspetta troppo finisce per disperare. Sono andata a chiedere aiuto. Un gruppo di ragazzi col cappello da alpini, un po’ a malavoglia, ci hanno fatto da facchini. Ho chiesto alle donne se ci fosse qualcuno che sarebbe venuto a prenderle. Mi hanno ringraziato moltissimo, ma non hanno risposto alla mia domanda. Ho salutato la bimba e mi sono avviata verso casa.
Prima dell’uscita, ho incrociato un poliziotto in divisa. Stava chiacchierando con una coppia di soldati in mimetica, un lui e una lei.
Gli ho detto del campanello che non chiama nessuno, né l’ascensore né il responsabile della stazione.
Dice che a quell’ora non c’è nessun responsabile in stazione. Dice anche che quel bellissimo ascensore cromato ThyssenKrupp non ha mai funzionato. Che è stata alla stazione di Brescia anche Striscia la Notizia. Eppure, nemmeno loro hanno fatto il miracolo.
«E se non ci riescono loro, di certo non possiamo farlo noi» dice.
Ah, ecco. Il Gabibbo.

da Simone Casetta - Fanno finta di non esserci (2011)

 

PS: Le fotografie di questo post sono tratte dal libro fotografico “Fanno finta di non esserci” fotografie di Simone Casetta con un testo di John Berger. Sono scatti di resti umani anatomici conservati nei sotterranei di un noto istituto ospedaliero della capitale. Sono resti anatomici, feti, parti di corpi che la medicina ha imbalsamato per scopi scientifici. Sono uomini senza nome, bambini gravemente deformati, corpi di grande interesse scientifico e nessun valore umano. Appartengono a un passato molto recente, qualcuno di loro potrebbe avere l’età di un parente a noi caro e ancora vicino. Per il fascismo, sono state vite utili solo per la medicina. E in questo stato, senza riconoscimento, senza nomi se non quelli della patologia che li ha afflitti mortalmente, riposano, dimenticate. Informazioni sul fotografo e sul libro le trovate qui.

Senza profitto ne avremmo approfittato

XIII giornata della Colletta Alimentare.
Ieri, 28 Novembre 2009.



Dovevo fare la spesa e così ho aspettato che fosse il sabato giusto.
Supermercato vicino casa.
All’ingresso un gruppo di ragazze sorridenti, età media 14 anni, distribuisce i volantini coi prodotti utili per chi ne ha bisogno. Si comprano:
– Olio

– Omogeneizzati e altri prodotti per l’infanzia
– Tonno e carne in scatola
– Pelati e legumi in scatola
Tra gli scaffali mi ferma una coppia di signore eleganti: «Scusi, lei sa dove sono il tonno e i fagioli in scatola?». Terza corsia, dopo la parete dei sottaceti.
Poi mi ferma un ragazzo senegalese: «Ma tu sai dove sono gli omogeneizzati?».
In fondo, c’è uno scaffale dedicato. Mi sente e lo segue a ruota una coppia giovane.
Finisco anch’io la mia spesa perché far beneficenza con cose pratiche come il cibo mi sembra in effetti uno dei modi migliori.
Penso al buonumore sprigionato nei televisori dove i pacchi o le buste o i sacchetti o qualsiasi altra cosa contiene migliaia di euro. E penso a unmilionetrecentomila famiglie che nei pacchi, nelle buste, nei sacchetti o qualsiasi altro contenitore spera di trovare da mangiare per almeno un altro paio di giorni. Ho scritto unmilionetrecentomila sapendo che la realtà (non confermata dalle statistiche) ha superato i tremilioni. E aumenterà.

Però ieri, metre giravo per il supermercato, un po’ di domande me le sono poste.
Se durante la giornata della colletta alimentare, il latte in polvere non fosse costato i soliti trentaepassa euro al kilo, quanto in più sarebbe stato acquistato?
Se gli omogeneizzati (1 per pasto, considerando un minimo di 4 pasti al giorno dal 6°mese di vita fino all’anno compiuto, ossia 7-8 mesi, ovvero 210-240 giorni e dunque 840-960 pasti da fare per ciascun bambino) non fossero costati i soliti 60 centesimi a confezione, quanti in più ne avremmo acquistati per chi ne ha bisogno davvero?
Se, oltre alle persone che ‘fanno la spesa anche per chi non può permetterselo’ anche i marchi della grande distribuzione e i supermercati, per un giorno, avessero rinunciato al loro rientro…

Mentre ieri facevo una piccola cosa per qualcuno che non conosco ma a cui tengo come essere umano, consideravo banalmente che quella di ieri è stata una festa per la grande distribuzione, marchi e punti vendita.
Comunque la si voglia mettere, il profitto non ha senso etico.
Per fortuna, anche se ci sono sindaci immorali, una classe politica indifferente e media compiacenti, le persone tengono ancora alle vite di altri sconosciuti, chiunque essi siano.